Parafrasando Pascal, si potrebbe dire che “l’editoria ha le sue ragioni, che la ragione non conosce”. Come spiegare altrimenti, il successo di un libro come “50 sfumature di grigio”? Un libro che uno come Fantozzi definirebbe tranquillamente, e non a torto, “una boiata pazzesca”.
Da molti anni
Giorgio e Tommaso oppure Maria e Giovanni sono spariti. Non in senso fisico,
no. Sono spariti dai libri dei nuovi autori italiani. Anche i ragazzi di
borgata di pasoliniana memoria sono spariti. Sono cambiate anche le
ambientazioni. Negli e-book, più facili da pubblicare, è tutto un pullulare di
George e Tommy, che non si ritrovano più in un casolare diroccato di Abbiategrasso
ma in un ranch del Montana, e la storia d’amore di Maria e Giovanni non si sviluppa
più in un quartiere di periferia di Firenze o in una piccola cittadina
italiana. No, Maria e Giovanni sono diventati Mary e Jhon e adesso la loro
storia d’amore nasce e si sviluppa in un quartiere bene di New York. Dai libri
e dagli e-book dei nuovi autori italiani, sono spariti i ragazzotti di
provincia, tanto cari a Sandro Penna, soppiantati da giocatori di basket o da
miliardari o da strafighi figli di miliardari.
Se uno ci riflette
appena un po’, una spiegazione immediata la trova. Viviamo in un brutto periodo.
La politica internazionale (ammesso che esista qualcosa del genere) è deprimente
e da decenni, ormai, è fatta di guerre o rivolte, più o meno pilotate, per
portare la democrazia in ogni dove, e i risultati sono sotto gli occhi di
tutti. Viviamo in un paese di vecchi, governato da vecchi e gestito da vecchi.
La tivù di stato sembra una casa di riposo per artisti. La Pavone, Ranieri,
Pippobbaudo e così via. Se non sei almeno vicino ai settant’anni nessuno ti
vedrà mai in tivù. E se c’è qualche giovane, è perché è il figlio di qualche
vecchia gloria. Il figlio di Al Bano (che ancora non si decide ad andare in
pensione), il figlio di Piero Angela (idem), eccetera. Quasi che il nostro
paese, in cinquant’anni, non sia riuscito a trovare volti nuovi, nuovi artisti,
nuovi cantanti o presentatori. Pare che, in un segreto ufficio di Viale Mazzini,
sia già alacremente al lavoro un gruppo di autori che sta creando il nuovo
programma di divulgazione, che sarà condotto dal figlio del figlio di Piero
Angela! E così tutti con gli occhi puntati verso la Grande Mela, dacché dalle
nostre parti, se hai meno di sessant’anni e non sei il figlio di qualcuno, non
hai nessuna speranza. Così si spiega la continua “fuga di cervelli” della quale
ogni venti-venticinque giorni ci parlano. Ma questa situazione può spiegare
perché Maria è diventata Mary e perché tutti si sono trasferiti negli USA? No.
Io credo di no. La spiegazione è più semplice, io credo. Più infantile, se
volete. Il disastro è colpa di Harry Potter e delle Cinquanta sfumature di grigio,
di nero e non so più quali altri colori ci siano. Inutile aggiungere che Harry
Potter e le Cinquanta sfumature sono agli antipodi. Nel primo ci sono idee, c’è
fantasia, ambientazione, scrittura. Nel secondo c’è, semplicemente, quella che
una volta si definiva “prouderie”. Una trama inesistente, la perversione appena
accennata, una scrittura da elenco telefonico. In poche parole: la perversione
e la depravazione, in dosi omeopatiche, per anziani medici di famiglia, don
mattei e simili.
Qualcuno potrà
obiettare che, comunque, le cinquanta sfumature sono un best-seller mondiale e
quindi io e Fantozzi non abbiamo capito niente. Non è così. Perché, come dicevo
all’inizio, l’editoria ha le sue ragioni che la ragione non conosce. Anzi,
sarebbe meglio dire, “che il lettore non conosce”. Ma gli addetti ai lavori sì.
Un editore lo sa (o, se conosce il proprio mestiere, dovrebbe saperlo) come si
confeziona un best-seller. Un libro come le cinquanta sfumature potrebbe essere
confezionato da chiunque . L’editore stesso potrebbe chiamare uno scrittore di
medio talento e spiegargli cosa cerca. Di successi planetari ne sono stati preconfezionati
a decine, in tutti i settori: editoria, cinema eccetera. E questo spiega perché
non serve ambientare nella Grande Mela, invece che a Abbiategrasso o chiamare i
protagonisti Mary e John invece di Maria e Giovanni. Perché non è questione di
talento. Per queste operazioni, il talento non serve. Serve il mercato. Il
mercato potenziale. E questa è l’unica cosa che è chiara ai nostri nuovi autori,
che si affannano a scrivere, o spendono soldi per farsi tradurre, in inglese.
E’ una realtà di fatto. Se scrivi in italiano hai un mercato potenziale di cento
milioni di lettori, a farla grande. Se scrivi in inglese sono tutt’altre cifre.
Qualcuno mi dirà: e allora perché non provarci? Per un semplice motivo. Perché
un editore americano o inglese ha un sacco di autori di madrelingua, che gliela
possono confezionare, una cosa del genere! Perché mai dovrebbe prendersi la
briga di far tradurre una boiata scritta in italiano, quando nei suoi uffici ne
arrivano a decine ogni settimana, scritte in inglese?
Ovviamente, questo
discorso vale solo per alcuni scrittori, non per tutti. Ci sono molti scrittori
che non hanno in mente niente di tutto questo, e scrivono semplicemente per
passione e come tutti quelli che scrivono, sperano, o sono convinti, che quello che scrivono possa
valere qualcosa. Queste osservazioni
possono valere, anzi valgono, anche per loro. Quando si scrive, sarebbe meglio
scrivere di quello che si conosce. Ovvio che se scrivi di fantasmi o di guerra
non devi necessariamente aver visto un fantasma o conosciuto la guerra. Ma se
ambienti il tuo libro negli USA e nutri la segreta speranza che diventi un best-seller
mondiale, allora il problema bisogna porselo. E non serve a niente
“documentarsi” o aver fatto il viaggio nella grande mela, magari come premio
per la laurea. Immaginate che uno scrittore americano, volendo scrivere un
libro ambientato in Italia, soggiorni per un paio di settimane o anche un mese,
nel nostro paese e vi chieda un consiglio. Dove gli consigliate di soggiornare?
A Milano? O a Palermo? O forse è meglio Roma? O forse è meglio una città
piccola, che so Arezzo o Sondrio, o Catania? Per fargli comprendere meglio lo
“spirito” italiano, è meglio soggiornare in città o in provincia? Inutile
continuare.
Ascoltai alla
radio, qualche anno fa, una lunga intervista ad Arturo Brachetti che parlava di
una sua esperienza di lavoro americana a Broadway o Brooklyn, Hollywood, non
ricordo dove. Lo avevano ingaggiato per una comparsa in una sit-com. Doveva
interpretare un cameriere italiano che impreca. Tutto qui. Doveva trasformarsi
rapidamente ed imprecare in italiano. Una sola battuta. Ma la battuta, anzi
l’imprecazione, non aveva niente di italiano. E allora il nostro bravo artista
fece, giustamente, notare che un italiano non imprecherebbe mai nel modo in cui
era previsto nel copione. Che ne so: “Porca pupazzola” e osservava, giustamente,
che se lo avevano scelto perché italiano e doveva imprecare in italiano, un
italiano direbbe… vabbè inutile che ve lo riporti. Di questi tempi gli italiani
che imprecano sono molti, e non avete bisogno di informazioni al riguardo.
Espressioni stupite. Scambio di sguardi perplessi tra gli autori, regista,
sceneggiatori e sospensione della ripresa. Tutta una schiera di tecnici, attori,
truccatori, fonici e quant’altri fermi in ansiosa attesa dello staff, che nel
frattempo si era riunito in ufficio, per decidere. Due ore di attesa e alla
fine escono con una decisione salomonica. La battuta sostitutiva era a metà
strada tra il politically correct statunitense e l’imprecazione italiana.
Risultato: non era né tipicamente statunitense, né tipicamente italiana.
Nella stessa lunga
intervista, sempre parlando di quella sua stralunante esperienza statunitense, il
nostro bravo artista raccontava di come fosse nell’ordinario giornaliero,
uscire dagli studi per un panino. Si fanno una ventina di chilometri per
raggiungere un centro commerciale e bere un aperitivo, poi si fanno un’altra
ventina di chilometri per raggiungere un altro centro commerciale e mangiare un
panino e via ancora in un altro centro commerciale per il caffè. E ricordo
chiaramente il parallelo che faceva: ”E’ come se tu, abitando a Milano, facessi
dieci chilometri per andare a prendere l’aperitivo all’Ikea, poi vai all’Auchan
a mangiare un panino e poi… (non ricordo il terzo), per il caffè. Una cosa
folle!”
Da tutto questo si
possono, ragionevolmente, ricavare due considerazioni.
La prima è che se
hai stoffa, e quello che scrivi ha un qualche valore, la tua storia funziona e
ha qualche possibilità di successo, comunque. Anche se la ambienti in una università
italiana e non a Cambridge. In questi
giorni si è parlato spesso di Andrea Camilleri, che ha da poco compiuto
novant’anni. Camilleri, a oggi, ha venduto più di dieci milioni di copie e i
suoi libri sono stati tradotti in più di cento lingue. E Camilleri scrive in
italiano e, per di più, nei suoi libri c’è anche molto dialetto siciliano. E Vigata
(Licata), se non hai una carta geografica abbastanza dettagliata, nemmeno la
trovi indicata.
La seconda
considerazione che si può ricavare, di conseguenza, è che se quello che scrivi non
vale una cippa, non sarà certo ambientandola nella Grande Mela che le cose
funzioneranno meglio.
Augusto Novali, settembre 2015
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